Le Ragazze di Benin CityLe Ragazze di Benin CityLe Ragazze di Benin City
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376 pagine - € 16,02
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Angela

Angela racconta il suo viaggio verso lo sfruttamento

È il racconto di un "viaggio", quello di Angela. È un racconto di sofferenze, di violenze e di morte. Di persone abbandonate nel deserto. Di ragazze stuprate che poi partoriscono sulla barca in balia delle onde in mezzo al Mediterraneo

Poi un giorno siamo partiti e siamo andati verso il deserto

Angela racconta il suo viaggio verso lo sfruttamento

Abbiamo attraversato il deserto a piedi. Avevamo delle guide arabe e noi gli andavamo dietro, in fila, con gli occhi bassi a seguire il tallone che precede.

Una pista di schiene in fila, da vederci da lontano.

A volte le guide procuravano un camion che ci portava avanti per un pezzo.

Ma c’erano sempre risse e litigi perché spesso il patto era per una cifra e poi invece quelli chiedevano il doppio. Così il viaggio diventava impossibile.

I camion erano sempre pieni da scoppiare. Una volta sul cassone eravamo più di sessanta, e un’altra volta, che non c’era più spazio, hanno semplicemente buttato giù quelli di troppo, lì in mezzo al deserto, senza acqua e senza niente. Chi capita capita. Ho dovuto anche fare sesso con una guida, più volte, quello mi aveva minacciata di lasciarmi a piedi e sola in mezzo al deserto.

E tu riparti e li lasci indietro e fai questa strada nel deserto e vedi le ossa della gente tutte bianche ai lati della pista. Vedi i corpi seccati dal sole. L’unica cosa che riesci a pensare è devo resistere.

L’ultimo pezzo di deserto ci abbiamo messo due giorni ad attraversarlo, e non c’era acqua, non c’era niente perché i capi avevano litigato tra loro per via dei soldi.

Quando siamo arrivati eravamo più morti che vivi. Ci hanno portati a lavarci, ci hanno dato dei vestiti puliti. Al porto mi sono guardata intorno, del mio gruppo di trenta ne erano rimasti sì e no dieci.

Al porto ci hanno ficcati su una piccola barca. Dove ci stavano in cinque ci hanno messi in dodici. C’era un tizio che teneva il motore, e con quel rottame dovevamo raggiungere una barca più grande che stava al largo. Ci abbiamo provato e riprovato ma le onde erano troppe alte e abbiamo dovuto arrenderci.

Di fianco a me c’era una donna con suo marito e con il loro bambino, ma poi chissà se davvero era il loro bambino, quella donna era stata stuprata (come me) più volte durante i tanti mesi di questo viaggio. Un bambino, lei aveva partorito non so dove e non so quando. Era un maschio. Lo teneva stretto per ripararlo dalle onde.

E quando siamo arrivati alla banchina siamo scesi tutti, tranne lei. Era sempre lì seduta col bambino in braccio e non si muoveva. Era morta.

Il marito l’ha seppellita, ha preso il bambino e il giorno dopo è ripartito. Che cosa poteva fare d’altro?

La mia storia è dura e liscia come un sasso e come un sasso molto dura da mandare giù. Ma se tu non capisci la rabbia e la paura e l’angoscia del viaggio non puoi capire cosa significa l’arrivo. E se non capisci l’arrivo non puoi capire nemmeno come è la vita di noi che siamo partite.

Ci sono mille storie e mille disperazioni, ma non le ascolta mai nessuno. E allora cosa puoi fare, mi dico. Non puoi chiudere la porta anche tu. Io non l’ho chiusa. Io sono una salvata tra mille sommerse.

Di questo sì, mi rendo conto benissimo e dentro sono piena di rabbia, e di vergogna, e di sensi di colpa.

Perché io sono qui e sono viva.

Itohan e Patience e Atagà e mille altre no.

Ed è per questo che per me è venuta l’ora di raccontare

Maris Davis, luglio 2021